DOPO ALLUVIONE
Un intervento del CIRF Centro Italiano per
la Riqualificazione
Fluviale di
Mestre
“Spazio ai fiumi, le opere
non ci salvano”
Clima. Dopo gli eventi estremi di ottobre, il
Piemonte ha chiesto 1 miliardo per opere e interventi sui bacini dei i fiumi
per “riparare” il dissesto idrogeologico
29.10.2020 ilmanifesto.it
Giovedì 22 ottobre il Consiglio dei ministri ha deliberato la
dichiarazione dello stato di emergenza, per un periodo di 12 mesi, nei
territori delle province di Biella, Cuneo, Novara, Verbano-Cusio-Ossola e
Vercelli. Tutto il Piemonte, in pratica, tranne Torino, Asti e Alessandria. È
una conseguenza degli eventi meteorologici estremi ed eccezionali che si sono
verificati nei giorni 2 e 3 ottobre 2020, e che hanno interessato in
particolare i bacini dei fiume Toce, Sesia e Tanaro. È passato quasi un mese, ma
le immagini di quei giorni restituiscono la portata del disastro: il centro
storico di Garessio (Cn) invaso dall’acqua del Tanaro e dal fango, la statale
del Col di Tenda collassata, tra Italia e Francia, i treni fermi tra Torino e
Milano per l’esondazione del Sesia.
Il
presidente della Regione Piemonte, Alberto Cirio, ha chiesto immediatamente un
miliardo di euro. Qualche giorno dopo ha ribadito: «Quando ho chiesto un
miliardo di euro qualcuno a Roma ha sorriso, ma non si sorride di fronte ai
danni che reclama il Piemonte. Il Piemonte oggi ha bisogno dello Stato e se
scriviamo un miliardo è perché siamo certi dell’entità dei danni, perché
facciamo le cose seriamente. Il dossier contiene interventi per 300 milioni di
euro per le opere di somma urgenza, altri 300 milioni per interventi
strutturali e una parte rilevante da destinare ai privati, ovvero aziende e
famiglie che dobbiamo aiutare per ripartire dopo il disastro che hanno subito».
Parla di opere e interventi, Cirio, e lo stesso ha fatto il ministro dell’Ambiente,
Sergio Costa, provocando l’immediata reazione del Cirf, il Centro italiano per
la riqualificazione fluviale (www.cirf.org), un’associazione
tecnico-scientifica senza fini di lucro fondata nel luglio 1999 per alimentare
il dibattito sulla riqualificazione degli ecosistemi fluviali e promuovere
criteri di maggiore sostenibilità nella gestione dei corsi d’acqua: «Dissesto
idrogeologico: le opere non ci salveranno, dobbiamo restituire spazio ai
fiumi».
Andrea
Goltara, direttore del Cirf, racconta all’ExtraTerrestre i motivi di
questo intervento: «Costa da quando è diventato ministro punta tutto e in modo
esclusivo sulla spesa in opere di difesa, e lo ha ribadito anche
nell’intervento alla Camera sul dissesto, dopo gli eventi che hanno interessato
Piemonte e Liguria a inizio ottobre. Nessuno nega che se c’è un’emergenza in un
contesto urbano debba essere ricostruita un’opera di difesa, ma il problema è
che in Italia c’è solo quello: manca un approccio più ampio e integrato, e non
c’è traccia di soluzioni che puntino a restituire spazio ai fiumi nella
Strategia del governo. Pensare che tutto si risolva nel costruire più opere, e
più velocemente, e spendendo più soldi, è una lettura che speravamo di non
dover più vedere».
Questo
è vero, in particolare, in un Paese che vede il 91% dei Comuni interessato da
problematicità idrogeologiche, con l’80% dei territori a rischio, come spiegano
i dati dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale
(Ispra).
Perché, a vostro avviso, manca una
Strategia?
Servirebbe
una pianificazione di area vasta, mentre avverto spinte per dare i soldi ai
Comuni. Ma il Comune non può valutare compiutamente gli effetti di un
intervento, in particolare quel che accadrà a valle, e rischia solo di
scaricare il rischio: gestire un fiume non è come manutenere una strada, devi
capire che cosa ha senso fare a monte, a valle. Per proteggere una città dagli
effetti devastanti delle piene, ad esempio, si può scegliere di agire
localmente, costruendo un argine, oppure di guardare a monte, ripristinando
aree di laminazione diffusa. Questo tipo di intervento può programmarlo
un’Autorità di Bacino, adeguandosi alla normativa europea, ma nella pratica
questi soggetti si stanno esautorando: sono i commissari, le Regioni, a
decidere che cosa fare, e questo è preoccupante. Le Regioni spingono per le
opere, in un’ottica miope, ma ci si aspetterebbe dal ministro dell’Ambiente un
intervento volto a compensare questa visione, sottolineando che si deve andare
in direzione diversa. L’Europa ci dà una mano: anche nell’utilizzo dei fondi
del Recovery Fund ci sono dei vincoli, dato che il 37 per cento dovrà garantire
tutela della biodiversità e capacità di adattamento agli effetti del
cambiamento climatico. I fondi della transizione verde applicati alla gestione
del dissesto non possono andare secondo il Cirf solo a costruire opere, a
difendere. Serve pianificare come recuperare spazio a favore dei corsi d’acqua.
Quali sono i limiti delle grandi
opere, in una fase in cui il cambiamento climatico già provoca un aumento degli
eventi estremi?
Le
opere vanno mantenute. Chi costruisce sa che si sta accollando costi sempre
crescenti di manutenzione e di rifacimento futuro. Oggi in Italia esistono
estesissimi sistemi arginali con problemi di tenuta, perché spesso non ci sono
abbastanza risorse per la manutenzione. Opere fatte, rifatte e rifatte. Perché
se il tuo obiettivo è solo quello di ingessare il fiume, di bloccare la
dinamica del corso d’acqua, prima o poi arriva l’evento straordinario che ti
crea problemi. Adesso, poi, anche gli eventi diventano più gravosi (secondo
l’Arpa Piemonte, i valori registrati durante gli eventi del 2 e 3 ottobre nel
verbano «rappresentano a livello di stazione più del 50% della precipitazione
media annuale», mentre tutto il bacino del Po ha ricevuto in 4 giorni il 15%
delle precipitazioni annuali, ndr), il sistema è sottoposto a uno stress in
crescita. La risposta non possono essere opere sempre più grandi, serve fare un
passo indietro. Questo problema lo vivono anche le coste, e in alcuni casi si è
deciso di arretrare le opere di difesa, lasciando che il mare si riprenda
territori oggi tenuti artificialmente all’asciutto con grande dispendio di
energia elettrica per il funzionamento delle idrovore. Serve un ragionamento di
lungo periodo: non ha senso costruire opere che costano più dei beni che devono
difendere, tutto questo senza migliorare lo stato ecologico del corso d’acqua,
un obbligo che abbiamo a seguito di Direttive europee come la numero 60 del
2000.
Prima ha descritto l’importanza
delle aree di laminazione diffusa. La politica parla spesso di casse di
espansione dei fiumi. La differenza tra i due interventi è, forse, un elemento
esemplare.
Quando
parliamo di cassa di espansione in generale facciamo riferimento ad un volume
circondato da un argine, è un’opera di cemento che rimane vuota tutto il tempo
tranne quando c’è l’evento. È un’opera idraulica. Recuperare laminazione
diffusa significa invece ripristinare le condizioni per cui il fiume, in
determinate condizioni, possa liberamente espandersi, nella piana inondabile
nei pressi del fiume. Può prevedere lo spostamento degli argini, o magari di
non farli proprio. Ripristina quello che definiamo effetto diffuso di
trattenimento. In certi casi può essere efficace anche evitare di tagliare gli
alberi: i boschi ripari, rallentando le acque, possono smorzare i picchi di
piena e questo riguarda non solo l’asta principale del fiume, ma in particolare
tutto il reticolo minore. Dovrebbero essere promossi anche interventi di agricoltura
conservativa, per il ripristino del carbonio organico del suolo e per far sì
che il suolo faccia da spugna.
https://ilmanifesto.it/spazio-ai-fiumi-le-opere-non-ci-salvano/
https://www.cirf.org/it/dissesto-idrogeologico-dobbiamo-restituire-spazio-ai-fiumi/