venerdì 6 gennaio 2017

TULLIO DE MAURO: LA PAROLA E IL LINGUAGGIO, TRA NATURA E CULTURA

Ricordiamo Tullio De Mauro, riproponendo un suo contributo relativo al rapporto tra natura e cultura nell'evoluzione della lingua e del linguaggio

LA FATICA DEL DIRE E DEL CAPIREChi di noi appartiene all’età adulta, ed è per giunta istruito, usa le parole in uno spazio che in genere gli appare puramente mentale: le ascolta e capisce, le progetta e con poca fatica le dice o scrive.
Ogni giorno, una persona adulta colta “processa”, come dicono gli informatici, decine e decine di migliaia di parole. Vale la pena azzardare una stima. Sappiamo che, in un minuto, leggiamo o sentiamo leggere ad alta voce in modo comprensibile circa cento parole italiane o tedesche, centodieci francesi o inglesi, ma contemporaneamente, nello stesso minuto, ne pensiamo almeno altrettante senza troppa difficoltà.
Per essere cauti si può stimare, al ribasso, che un adulto colto processi ogni giorno, in sedici ore di veglia, assai più di centomila parole. Ma il word processing mentale continua anche durante il sonno. Ripeto, sono stime caute, al ribasso. Nella lettura muta un buon lettore triplica queste cifre. E le parole pensate possono scorrere sullo schermo della mente ancora più veloci di quelle lette. Così l’adulto colto si fa l’idea che le parole e il parlare siano qualcosa di aereo: puro spirito.
Restano sepolte nella memoria perinatale e postnatale le fatiche del primo apprendimento delle prime parole, quando tutto il corpo, cervello compreso, dovette imparare a obbedire a un impulso primordiale: impegnarsi nella fatica di ascoltare voci, di isolare parole, di capirle, capirne l’importanza vitale, imparare a tenerle a mente, desiderare poi di balbettarle e, infine, riuscire a dirle.
Di solito resta sepolta nella memoria infantile anche quella che Antonio Gramsci chiamava “la fatica muscolare dello studio” – natiche dolenti per lo stare seduti a leggere, occhi stanchi a decifrare gruppi di lettere di alfabeti o ideogrammi, a imparare cifre e numeri – per quella parte del genere umano che ha potuto studiare e, di nuovo, ha dovuto fronteggiare il compito di imparare nuove parole di una qualche lingua, apparentemente lontane dall’immediata vita quotidiana, così come il bambino aveva imparata a vederla.
APPROPRIARSI DELLA PAROLA
L’adulto colto ha vissuto allora tutta la fatica di mobilitare corpo e cervello per trasformare l’impulso naturale primordiale al comunicare nel cammino che lo ha portato a farsi partecipe di una cultura determinata e a salire in uno spazio dove parole, cifre, formule aleggiano leggere e sono quasi sempre, quasi tutte, a portata di intelligenze che hanno imparato a muoversi sempre più speditamente.
Ma in generale l’adulto istruito quella fatica l’ha dimenticata: la sua mente scorre distratta, come su una cosa ovvia, quando legge che il parlare umano è qualcosa di naturale e però è anche qualcosa di culturale, di storico.
Se uno riesce a comunicarglielo, l’istruito apprende con stupore che è non è altrettanto ovvio mettere insieme le due affermazioni in modo concettualmente coerente, oltre che col trattino con cui scriviamo lingue storiconaturali.
La visione del parlare che qui vogliamo delineare ha la presunzione di togliere ovvietà a quel che appare ovvio, non per il gusto di complicare le cose ma perché l’adulto istruito avverta l’enormità del privilegio che la storia della specie e remote fatiche infantili gli hanno dato.
E questa è una condizione necessaria per trarne qualche conseguenza. E perché anche altri, non uno di meno se possibile, si affaccino nell’aereo mondo mirabile dove può muoversi la sua mente.
LA PAROLA E IL LINGUAGGIO, TRA NATURA E CULTURAIl primo passo da fare è rendersi conto di quanto la cultura e l’intelligenza linguistica di chi è istruito devono all’animalità e al corpo. Naturalmente, anche un profano si rende conto che gli organi di cui ci serviamo per produrre o sentire la voce, oppure il cervello che guida produzione e percezione della voce e memorizza parola e regole, e anche l’attribuzione di valori sintattici e semantici alle sequenze foniche con cui parliamo sono eredità biologiche per ciascun individuo della specie umana.
Ma anche il profano capisce che, invece, non sono “natura”, ma appartengono a certe epoche storiche e non ad altre certi significati e certi vocaboli, come le differenze dei significati possesso e proprietà, così come sono gravidi di una cultura e storicità determinata vocaboli come, per esempio, pólis, praetor, parlamento, aeroplano, computer, ma anche parole umili come scarpa, patata, pane, lampadina.
Del resto anche la morfologia e la sintassi delle lingue si presentano variabili nella storia e nello spazio. Così anche il profano intende che nel parlare umano naturalità e storicità si intrecciano. Il problema teorico è capire se è possibile individuare i confini tra i due domini. Se ciò è possibile, il problema diventa assegnare l’uno o l’altro aspetto della realtà linguistica al tempo della storia e delle culture umane o al più lento tempo dell’evoluzione naturale delle specie viventi nel cosmo, o almeno in questo nostro pianeta.
LA PAROLA “NATURALE”
Il problema, nella sua formulazione più generale e generica, non è nuovo. Già nel mondo greco antico, a partire dalle osservazioni di viaggiatori, medici e filosofi, si formò l’idea che sapere usare una lingua è un fatto naturale per gli esseri umani.
Nel Perì diaítes, attribuito a Ippocrate (Coo 469-Larissa 399 a.C), composto comunque intorno al 400 a.C., il parlare, la diálektos, viene considerato uno dei sette sensi (udito, vista, odorato, gusto, diálektos appunto, di cui è organo la bocca, tatto, inspirazione-espirazione) che mettono in contatto l’ánthropos, l'”essere umano”, con il cosmo, e gli danno conoscenza e ignoranza (Reg. I, XXIII).
Già allora, e ancora più nel secolo immediatamente seguente, fu chiaro che, unico tra gli altri “sette sensi”, il linguaggio si proietta in lingue differenziate a seconda delle póleis, dei popoli e dei tempi. Questa idea acquistò ancora più nettezza in seguito. Il nesso natura-molteplicità storica è centrale nella dottrina che Dante, riecheggiando sia Orazio (cioè, come oggi sappiamo, antiche fonti epicuree) sia gli scolastici di derivazione aristotelica, fa esporre al progenitore del genere umano, Adamo, nel canto XXVI del Paradiso (vv. 124-38), in particolare nella terzina famosa:
Opera naturale è ch’uom favella,
ma così o così, natura lascia
poi fare a voi secondo che v’abbella
In età moderna, e ancor più nel Novecento, le frontiere della ricerca intorno al linguaggio umano hanno conosciuto e stanno continuando a conoscere rapidi spostamenti. Le conoscenze consolidate si sono ampliate e si vanno ampliando enormemente. Sempre di più capiamo che, come ha scritto un linguista seguace di Noam Chomsky, l’americano Ray Jackendoff (Linguaggio e natura umana, p. 17), «l’abilità di parlare e capire una lingua umana è una complessa miscela di natura e cultura».
Oggi scorgiamo meglio il ruolo della fisicità, anzi -meglio- della animalità nel costituirsi della lingua. Ci rendiamo conto che elementi costitutivi e primari del linguaggio umano si riconducono a strati profondi della evoluzione dell’intera biomassa.
Due biologi, John Sepkopski e Jay Gould, hanno mostrato come ogni singola parte dell’organismo umano (muscoli, sangue, ossa, nervi, unghie, fino ai capelli) sia riconducibile a una particolare tappa della scala evolutiva in cui quella parte emerge. Ho cercato di mostrare altrove, più in dettaglio, che qualcosa del genere vale anche per ogni nostra lingua.
Una lingua, come fu insegnato tra fine Ottocento e inizio Novecento da Charles Peirce e Ferdinand de Saussure, è anzitutto un codice semiologico, un codice cioè che, come ogni altro codice semiologico, consente a chi lo usa la produzione e la comprensione di segnali realizzate associando ordinatamente sensi ed espressioni nei significati e significanti dei suoi segni (cioè, nel caso della lingua, parole, frasi, testi). LEGGI TUTTO

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