La Storia conferma che l'esperianza già vissuta noninsegna nulla, in particolare vorrei riferirmi ai funzionari pubblici "prigionieri" della politica che sanno ma fanno sempre finta di nulla.
Mario Bavastro
Stava: il «piccolo Vajont»
dimenticato di 30 anni fa
Poco dopo mezzogiorno crollarono i bacini di decantazione di una miniera: una colata di acqua e fango a 90 km/h in pochi minuti spazzò via le vite di 268 persone
Trent’anni
fa, a mezzogiorno, il paese di Stava si preparava a pranzare. Era una
calda giornata di luglio e l’abitato – una piccola frazione del Comune
di Tesero, in val di Fiemme (Trentino) – si godeva, con residenti e
turisti, la tranquillità delle montagne. Meno di mezz’ora dopo, il paese
non esisteva più. Alle 12h22’55” gli argini dei due bacini di
decantazione situati sopra l’abitato di Stava si ruppero, creando un
fiume di acqua e fango da 160 mila metri cubi, che alla velocità di 90
km orari cancellò tutto quello che incontrò sul proprio cammino. Il
fiume di fango portò con sé alberi, case e costruzioni di ogni tipo; ma
soprattutto cancellò in un istante l’esistenza di 268 persone, di cui oggi vive solo la memoria.
Una storia che viene da lontano
La
storia del perché due bacini straripanti vennero costruiti sopra un
abitato, su un terreno scosceso e paludoso, senza ottemperare alle più
elementari misure di sicurezza risulta ancora incomprensibile, così come
lo è l’eco sempre più fievole del ricordo di una simile tragedia.
L’inizio può essere collocato molto lontano nel tempo, addirittura nel
XVI secolo, quando si iniziò a sfruttare il monte Prestavel per la
produzione di galena argentifera. Secoli più tardi vennero individuati
alcuni filoni di fluorite, un minerale utilizzato in metallurgia, in
ottica e nell’industria ceramica. Dopo la seconda guerra mondiale la
miniera venne gestita da Montecatini, Montedison, Eni e infine Prealpi,
società che riuscirono a costruire un’opera importante in un posto
sbagliato.
Il posto sbagliato
L’attività
estrattiva funzionava così: attraverso una teleferica il materiale di
scavo veniva portato in superficie, dove veniva macinato e poi lavato
con acqua e sostanze specifiche per separare la parte utile dallo scarto
(flottazione). Quest’ultimo, una sorta di fango sottile composto al 95%
da acqua, veniva depositato nel bacino di decantazione; la parte più
pesante col tempo finiva sul fondo, mentre l’acqua di superficie,
pulita, veniva incanalata da tubi di drenaggio che la portavano a valle.
Impianti di questo tipo, secondo Daria Dovera, geologa che al processo
per la tragedia di Stava fu perito di parte civile, vengono normalmente
costruiti in luoghi opportuni: lontani dai centri abitati, seguono
rigorose norme di sicurezza e hanno molto spazio a disposizione per
ospitare i materiali di scarto. I bacini di Stava erano un’infelice
eccezione: costruiti in una valle, su un lato della montagna e su un
terreno scosceso e paludoso, erano situati sin dall’inizio nel posto
sbagliato.
Un bacino su un terreno paludoso
Ma
la miniera portava soldi. Il peccato originale, se esiste, va ricercato
nella decisione presa nel 1961. In quell’anno, la Montecatini acquistò
alcune particelle di terreno da un privato e altre dal Comune di Tesero -
il paese a cui Stava fa capo – chiedendo e ottenendo la concessione per
una discarica. La società chiese quindi alla Forestale – l’organo
preposto a vigilare sulle caratteristiche idrogeologiche di un
territorio – il permesso di costruire un «rilevato» (ossia un argine) di
9 metri, e lo ottenne, nonostante il terreno fosse paludoso. Domandò
infine al Genio civile di poter captare l’acqua del rio Stava, e pure
quello le venne concesso. Ora la Montecatini aveva a disposizione il
terreno, la possibilità di costruire un terrapieno che per la misura
limitata non poteva essere considerato una diga (che inizia a essere
tale solo dai 10 metri in su), e che quindi sfuggiva ai regolamenti
costruttivi in materia, e aveva persino l’acqua per la flottazione.
I bacinI «inesistenti»
Il
limite più evidente – ovvero il fatto che un argine di 9 metri sarebbe
stato riempito nel giro di due o tre anni, mentre lo sfruttamento della
miniera era previsto per venti – non preoccupò nessuno. Una volta
realizzato il primo strato del «rilevato» se ne costruiva un altro, e
poi un altro ancora: si pensi a una torta nuziale in sezione, un poco
storta; ai rilevati come alla decorazione a margine, e ai fanghi come
alla crema in superficie. Nel 1971 il primo bacino aveva innalzato e
riempito tutti gli strati possibili: era tempo di costruirne un altro, e
lo si fece più a monte. Rimane incomprensibile il fatto che all’epoca, e
poi fino al 1985, sulle carte non esistesse traccia dei due bacini,
citati ancora in una mappa dell’anno del crollo come «area agricola di
interesse secondario». I bacini c’erano, ma non essendo nati come dighe
non ne portavano il nome; e ciò che non ha nome non venne riportato su
alcuna mappa catastale né sul piano urbanistico di Tesero o della
Provincia di Trento.
Il secondo bacino
Nel
1974 Giuseppe Zanon, sindaco di Tesero, segnalò al Distretto minerario
della Provincia di Trento che forse non era il caso di innalzare anche
il secondo bacino; gli venne risposto (dopo un sopralluogo di cui
vennero incaricati gli stessi concessionari della miniera, passata
all’epoca a Fluormine, del gruppo Montedison) che invece sì, lo si
poteva fare «con le dovute cautele». La sua lettera venne archiviata.
Prima del collasso dell’opera, nello stesso 1985, accaddero due
incidenti.
Un crollo annunciato
Il
primo avvenne a gennaio: un tubo di drenaggio del bacino superiore,
collocato sotto i fanghi e piegato dal loro peso, si era dissaldato,
causando delle perdite. Per il freddo, inoltre, si era gelata la
tubazione che portava l’acqua dal bacino superiore a quello inferiore,
bloccando il normale deflusso dell’acqua di risulta. Queste rotture
avevano creato una tasca d’acqua alla base dell’argine più alto, che era
parzialmente franato all’esterno. Il secondo problema si verificò a
maggio. Forse per un naturale assestamento del terreno, una delle
tubazioni poste sotto l’argine inferiore si ruppe in un giunto, e
cominciò a fare da sifone: in altre parole, risucchiò quanto gli stava
sopra, creando una piccola voragine. Per colmarla, i tecnici fecero
prima una gettata di cemento, e poi riempirono il tutto con sabbia
asciutta prelevata dal bacino sovrastante. Ciò che il 19 di luglio del
1985 rovinò sul paese di Stava, cancellando le 268 persone che vi si
trovavano, erano giganti dai piedi di argilla.
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