mercoledì 15 luglio 2015

Articolo tratto da Il Corriere della Sera del 15/07/2015

La Storia conferma che l'esperianza già vissuta noninsegna nulla, in particolare vorrei riferirmi ai funzionari pubblici "prigionieri" della politica che sanno ma fanno sempre finta di nulla.

Mario Bavastro

Stava: il «piccolo Vajont»
dimenticato di 30 anni fa

Poco dopo mezzogiorno crollarono i bacini di decantazione di una miniera: una colata di acqua e fango a 90 km/h in pochi minuti spazzò via le vite di 268 persone

di Elisabetta Curzel

Trent’anni fa, a mezzogiorno, il paese di Stava si preparava a pranzare. Era una calda giornata di luglio e l’abitato – una piccola frazione del Comune di Tesero, in val di Fiemme (Trentino) – si godeva, con residenti e turisti, la tranquillità delle montagne. Meno di mezz’ora dopo, il paese non esisteva più. Alle 12h22’55” gli argini dei due bacini di decantazione situati sopra l’abitato di Stava si ruppero, creando un fiume di acqua e fango da 160 mila metri cubi, che alla velocità di 90 km orari cancellò tutto quello che incontrò sul proprio cammino. Il fiume di fango portò con sé alberi, case e costruzioni di ogni tipo; ma soprattutto cancellò in un istante l’esistenza di 268 persone, di cui oggi vive solo la memoria.
Una storia che viene da lontano
La storia del perché due bacini straripanti vennero costruiti sopra un abitato, su un terreno scosceso e paludoso, senza ottemperare alle più elementari misure di sicurezza risulta ancora incomprensibile, così come lo è l’eco sempre più fievole del ricordo di una simile tragedia. L’inizio può essere collocato molto lontano nel tempo, addirittura nel XVI secolo, quando si iniziò a sfruttare il monte Prestavel per la produzione di galena argentifera. Secoli più tardi vennero individuati alcuni filoni di fluorite, un minerale utilizzato in metallurgia, in ottica e nell’industria ceramica. Dopo la seconda guerra mondiale la miniera venne gestita da Montecatini, Montedison, Eni e infine Prealpi, società che riuscirono a costruire un’opera importante in un posto sbagliato.
Il posto sbagliato
L’attività estrattiva funzionava così: attraverso una teleferica il materiale di scavo veniva portato in superficie, dove veniva macinato e poi lavato con acqua e sostanze specifiche per separare la parte utile dallo scarto (flottazione). Quest’ultimo, una sorta di fango sottile composto al 95% da acqua, veniva depositato nel bacino di decantazione; la parte più pesante col tempo finiva sul fondo, mentre l’acqua di superficie, pulita, veniva incanalata da tubi di drenaggio che la portavano a valle. Impianti di questo tipo, secondo Daria Dovera, geologa che al processo per la tragedia di Stava fu perito di parte civile, vengono normalmente costruiti in luoghi opportuni: lontani dai centri abitati, seguono rigorose norme di sicurezza e hanno molto spazio a disposizione per ospitare i materiali di scarto. I bacini di Stava erano un’infelice eccezione: costruiti in una valle, su un lato della montagna e su un terreno scosceso e paludoso, erano situati sin dall’inizio nel posto sbagliato.
Un bacino su un terreno paludoso
Ma la miniera portava soldi. Il peccato originale, se esiste, va ricercato nella decisione presa nel 1961. In quell’anno, la Montecatini acquistò alcune particelle di terreno da un privato e altre dal Comune di Tesero - il paese a cui Stava fa capo – chiedendo e ottenendo la concessione per una discarica. La società chiese quindi alla Forestale – l’organo preposto a vigilare sulle caratteristiche idrogeologiche di un territorio – il permesso di costruire un «rilevato» (ossia un argine) di 9 metri, e lo ottenne, nonostante il terreno fosse paludoso. Domandò infine al Genio civile di poter captare l’acqua del rio Stava, e pure quello le venne concesso. Ora la Montecatini aveva a disposizione il terreno, la possibilità di costruire un terrapieno che per la misura limitata non poteva essere considerato una diga (che inizia a essere tale solo dai 10 metri in su), e che quindi sfuggiva ai regolamenti costruttivi in materia, e aveva persino l’acqua per la flottazione.
I bacinI «inesistenti»
Il limite più evidente – ovvero il fatto che un argine di 9 metri sarebbe stato riempito nel giro di due o tre anni, mentre lo sfruttamento della miniera era previsto per venti – non preoccupò nessuno. Una volta realizzato il primo strato del «rilevato» se ne costruiva un altro, e poi un altro ancora: si pensi a una torta nuziale in sezione, un poco storta; ai rilevati come alla decorazione a margine, e ai fanghi come alla crema in superficie. Nel 1971 il primo bacino aveva innalzato e riempito tutti gli strati possibili: era tempo di costruirne un altro, e lo si fece più a monte. Rimane incomprensibile il fatto che all’epoca, e poi fino al 1985, sulle carte non esistesse traccia dei due bacini, citati ancora in una mappa dell’anno del crollo come «area agricola di interesse secondario». I bacini c’erano, ma non essendo nati come dighe non ne portavano il nome; e ciò che non ha nome non venne riportato su alcuna mappa catastale né sul piano urbanistico di Tesero o della Provincia di Trento.
Il secondo bacino
Nel 1974 Giuseppe Zanon, sindaco di Tesero, segnalò al Distretto minerario della Provincia di Trento che forse non era il caso di innalzare anche il secondo bacino; gli venne risposto (dopo un sopralluogo di cui vennero incaricati gli stessi concessionari della miniera, passata all’epoca a Fluormine, del gruppo Montedison) che invece sì, lo si poteva fare «con le dovute cautele». La sua lettera venne archiviata. Prima del collasso dell’opera, nello stesso 1985, accaddero due incidenti.
Un crollo annunciato
Il primo avvenne a gennaio: un tubo di drenaggio del bacino superiore, collocato sotto i fanghi e piegato dal loro peso, si era dissaldato, causando delle perdite. Per il freddo, inoltre, si era gelata la tubazione che portava l’acqua dal bacino superiore a quello inferiore, bloccando il normale deflusso dell’acqua di risulta. Queste rotture avevano creato una tasca d’acqua alla base dell’argine più alto, che era parzialmente franato all’esterno. Il secondo problema si verificò a maggio. Forse per un naturale assestamento del terreno, una delle tubazioni poste sotto l’argine inferiore si ruppe in un giunto, e cominciò a fare da sifone: in altre parole, risucchiò quanto gli stava sopra, creando una piccola voragine. Per colmarla, i tecnici fecero prima una gettata di cemento, e poi riempirono il tutto con sabbia asciutta prelevata dal bacino sovrastante. Ciò che il 19 di luglio del 1985 rovinò sul paese di Stava, cancellando le 268 persone che vi si trovavano, erano giganti dai piedi di argilla.
Il processo e le condanne
Il processo che seguì alla catastrofe si concluse nel 1992 con dieci condanne per un totale di 37 anni di prigione. Nessuno scontò la pena detentiva. «Mentre il Vajont è conosciuto, di Stava non ne parla più nessuno», lamenta Daria Dovera, che per il trentennale ha scritto Stava: incultura, imperizia, negligenza, imprudenza (ed. Fondazione Centro studi del Consiglio nazionale dei geologi). Il testo, secondo l’autrice, «vuole far conoscere ciò che è successo, e far riflettere sulle azioni compiute da vari soggetti a vario titolo. In un momento di crisi come questo, quando ci si sente dire “se non fai il lavoro tu, me lo fa qualcun altro più in fretta e a prezzo più basso”, è più importante che mai ricordarsi l’importanza di attenersi a un’etica e a un codice deontologico».

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