"Approfondimenti tecnici sui temi della sicurezza idraulica del territorio
a cura dell'AIPO e del Comune di Alessandria".
Contributo del prof. Luigi D'Alpaos
Comune e attualità alessandrina
Ribadisco: per mettere in
sicurezza la città bisognava spendere in altro modo.
.. Quale criterio adottare nella difesa dalle piene?..
Nella difesa dalle piene di un corso d’acqua si possono adottare due diversi
criteri, entrambi finalizzati a ridurre, se non ad annullare, i fenomeni di
esondazione in occasione degli eventi più gravosi.
Il primo criterio, che ancor oggi è quello generalmente perseguito, consiste
nell’adeguare le sezioni di un corso d’acqua alle massime portate prevedibili,
incrementandone la capacità di portata, in modo da contenere il colmo delle
piene rispetto alle quali ci si vuole cautelare. L’obiettivo si può raggiungere
sia ricalibrando le sezioni per far defluire, a parità di livello idrometrico,
maggiori portate sia più semplicemente innalzando le quote delle difese
arginali, fino a renderle in grado di contenere le massime portate previste.
Entrambi i provvedimenti non sono esenti da critiche. Riposizionando in quota
le arginature si corre il rischio di accrescere il pericolo di cedimenti di
tali strutture, che sono spesso il risultato di interventi successivi realizzati
nell’arco di molti anni, adottando criteri e utilizzando materiali non
sempre adeguati rispetto alle esigenze di stabilità che queste opere di
difesa dovrebbero garantire in fase di piena.
La seconda soluzione, che prevede di ricalibrare le sezioni ampliandole, non
necessariamente garantisce il mantenimento nel tempo della loro efficienza
idraulica. Questa infatti dipende dalla stabilità dinamica delle sezioni
rispetto ai fenomeni di erosione e di deposito che le possono interessare e che
potrebbero farle evolvere in senso negativo, riportandole fatalmente verso la
configurazione geometrica iniziale.
Tanto più l’evoluzione morfologica in senso negativo richiamata è da temere per
corsi d’acqua che hanno sostanzialmente un regime torrentizio, come è nella
maggior parte dei nostri fiumi, caratterizzati da fortissime differenze fra le
portate di piena e le cosiddette “portate dominanti”, responsabili della
modellazione delle sezioni e del mantenimento nel tempo delle loro
caratteristiche geometriche negli alvei naturali in presenza di importanti
fenomeni di interazione fra la corrente e gli alvei mobili che la
contengono.
Il secondo criterio perseguibile per difendersi dalle alluvioni, da tempo
suggerito ma nel nostro Paese ancora poco praticato dagli enti deputati alla
difesa idraulica del territorio, è quello di trattenere temporaneamente i colmi
di piena entro invasi appositamente predisposti, per rilasciare successivamente
i volumi intercettati sulla coda della piena, quando le portate scaricate
possono essere contenute senza pericoli entro gli alvei e fatte defluire con
regolarità verso valle.
Se con il primo indirizzo di difesa si adeguano gli alvei alle portate, con il
secondo si persegue l’obiettivo opposto: si adeguano le portate massime in
arrivo da monte alla capacità di portata degli alvei di valle.
Dopo la disastrosa alluvione del 4-5 novembre 1966, che colpì molte
regioni italiane e in modo particolare la Toscana e il Veneto, fu insediata dal governo
italiano una Commissione, che prese il nome dal suo autorevole presidente
Giulio De Marchi, per far luce sull’evento e per individuare gli interventi
necessari per evitare il ripetersi di una simile tragedia. La Commissione De
Marchi nel trasmettere al Parlamento italiano i suoi atti suggerì con
determinazione la necessità di modificare gli indirizzi di difesa idraulica
fino ad allora perseguiti orientando preferibilmente le iniziative verso
il criterio di moderare i colmi di piena in arrivo da monte mediante loro
trattenuta temporanea. Il criterio fu ritenuto preferibile per molteplici
motivi. Esso permetteva di contenere i fenomeni alluvionali, di ridurre il
rischio idraulico nei territori di pianura attraversati dai fiumi e di limitare
i fenomeni di cedimento delle difese arginali, sempre possibili e adlle
conseguenze quanto mai temibili.
Il criterio suggerito dalla Commissione non era una novità assoluta, essendo
stato nel concreto già praticato dal Magistrato alle Acque negli anni venti del
secolo scorso, realizzando il famoso bacino di laminazione delle piene di
Montebello Vicentino (5.106
m3 di invaso), che negli anni successivi e
fino ai nostri giorni fu decisivo per la difesa dalle alluvioni della pianura
veneta attraversata dall’Agno-Guà.
Nonostante gli esiti positivi del provvedimento, purtroppo questo criterio di
difesa non ebbe seguito e di fatto fu abbandonato. Miglior esito non ebbero i
suggerimenti della Commissione De Marchi, troppo presto dimenticati da
responsabili tecnici forse troppo disinvolti, flessibili più di un giunco
quando è preso dal vento rispetto alle esigenze della politica e sicuramente
non all’altezza degli autorevoli componenti di quella Commissione. Eppure negli
Atti della Commissione erano contenute precise indicazioni e
puntuali valutazioni sui benefici che nel campo della sicurezza idraulica
sarebbero potuti derivare a molti dei nostri fiumi, soprattutto a quelli
veneti.
Per il Veneto la colpevole incapacità di decidere dei responsabili tecnici, non
particolarmente sensibili ai doveri della loro carica, fu evidente a tutti nel
2010, quando nel bacino del Bacchiglione molti dovettero sperimentare
nuovamente sulla propria pelle cosa vuol dire alluvione. Quei danni e quelle
vittime probabilmente non ci sarebbero stati, se si fosse data concreta attuazione
alle opere indicate negli Atti della Commissione De Marchi.
Dopo questa ennesima tragedia, la decisa presa di posizione del Governatore
della Regione Veneto ha dato finalmente avvio nel bacino del Bacchiglione e nei
bacini di altri fiumi veneti alle opere per la laminazione delle piene da molti
reclamate ma da altri contrastate nel nome di una visione localistica e poco
lungimirante dei problemi. La speranza è che si continui nella direzione
intrapresa, la sola che potrebbe permettere di raggiungere in tempi ragionevoli
gli obiettivi che sono da molti anni, troppi, attesi.
Alla luce di queste brevi considerazioni, quanto si è fatto finora per il
Tanaro, in particolare per la difesa dalle piene di Alessandria, è forse
meritevole di qualche riflessione critica.
Stranamente, nonostante non mancassero indicazioni favorevoli alla
realizzazione di invasi destinati alla moderazione dei colmi di piena in arrivo
da monte, si è preferito di continuare seguendo una politica antica, ispirata a
criteri i cui limiti sono più che evidenti. Tanto più se si considera che
gli interventi al momento attuati non sembrano affatto essere in grado di
fronteggiare una piena come fu quella del novembre 1994, straordinaria ma pur
sempre ripetibile.
Sui provvedimenti adottati a difesa di Alessandria, con rialzi arginali,
ampliamenti di sezione, abbattimento di ponti (fra i quali il famoso Ponte
della Cittadella), i problemi sopra ricordati si calano in pieno: sul lungo
periodo non è escluso che essi siano parzialmente vanificati e che si
ricada negli esiti negativi richiamati e già duramente sperimentati in un
passato nemmeno troppo lontano.
Si tratta di provvedimenti ovviamente utili, ma non completamente risolutivi e
bisognevoli forse di essere completati con la realizzazione a monte di
Alessandria di invasi per la trattenuta temporanea dei colmi di piena in
arrivo, in modo da ridurre le portate massime a limiti di effettiva
sicurezza idraulica per la città.
Mi sia permesso per un momento rituffarmi in fatti ormai lontani: le indagini
condotte immediatamente dopo la drammatica piena del novembre 1994 per incarico
della Procura della Repubblica. Ho avuto l’occasione di conoscere molte persone
e di apprezzarne la positività, lasciandomi ricordi che a distanza
di anni restano sempre vivi dentro di me. Ho avvertito, a dire il vero, anche
la possibilità di verificare quanto siano forti le pressioni improprie per
orientare le soluzioni in un campo che avrebbe solo e soltanto bisogno di
azioni guidate dalla scienza, quella vera, non quella “amica”, che si
accompagna il più delle volte a esiti infausti.
Dal punto di vista scientifico quella offertami dal Procuratore Dott. Brusco fu
l’occasione di dimostrare, mediante l’applicazione di una modellazione
matematica idraulica avanzata, allora all’avanguardia ma tutt’ora efficacie ed
efficiente, come si potesse interpretare con una fedele rappresentazione della
realtà un fenomeno alluvionale complesso, quale fu quello che aveva colpito i
Tanaro e il territorio Alessandrino. Su specifica richiesta del Procuratore
ebbi fra l’altro modo di analizzare i benefici che sarebbero potuti derivare in
termini di sicurezza idraulica dalla realizzazione dei diversi provvedimenti da
più parte proposti. Fu così che ebbi modo di occuparmi anche delle casse di
espansione indicate come possibili interventi dall’Autorità di Bacino del Po
nello Studio SP1. Si trattava di interventi che interessavano aree golenali
all’altezza di Asti, di fronte a Felizzano e subito dopo la confluenza del
Belbo, associati a provvedimenti di ricalibratura locale dell’alveo e di
riposizionamento in quota di alcuni tratti arginali.
Come piena di riferimento nelle indagini promosse dalla Procura della
Repubblica fu adottata la piena del novembre 1994, il cui colmo in arrivo ad
Alessandria, con riscontri probanti in termini di quota idrometrica raggiunta
lungo tutto il tratto cittadino, fu stimato di circa 4500 m3/s.
I risultati ottenuti furono estremamente incoraggianti, poiché quella piena,
sicuramente straordinaria, vedeva il suo colmo ridotto nella parte in
attraversamento alla città a soli 3150 m3/s, più che
tollerabili per l’alveo del Tanaro e rispettosi anche del limite di 4000 m3/s,
allora indicato come non superabile verso Montecastello. Tanto più il risultato
fu interessante se i considera che, con una ottimizzazione nell’uso dei volumi
resi disponibili dalle casse di espansione, sarebbe stato possibile fare
ancora meglio, riducendo ulteriormente il colmo di quella piena. La moderazione
delle portate massime in attraversamento alla città riduceva fra l’altro
il rischi idraulico per eventuali, sempre possibili, cedimenti arginali,
essendo le difese sicuramente meno cimentate rispetto a soluzioni che
contemplavano la necessità di garantire il passaggio di portate di piena più sostenute.
Inoltre sarebbe stato possibile garantire per le sezioni dell’alveo maggiore
stabilità idrodinamica, evitando quei fenomeni di deposito e di ostruzione che
trovò la piena del novembre 1994. Aspetti questi ultimi rilevanti in tempi per
i quali la parola manutenzione degli alvei sembra non esistere più e i relativi
capitoli di spesa degli enti competenti sembrano essere desolatamente vuoti.
Ma la soluzione delle casse di espansione, lineare ed efficacie nello stesso
tempo e tutto sommato semplice da realizzare, venne ritenuta non praticabile da
quanti allora gestivano le decisioni e da coloro (troppi) che li condizionavano
per favorire i propri fini, non sempre commendevoli.
La realizzazione degli invasi di trattenuta dei colmi di piena fu così rimandata
a tempi migliori, adducendo in qualche caso motivazioni tecnicamente infondate.
Furono conseguentemente percorse strade diverse, ma, per quanto si sente dire,
non del tutto tranquillizzanti, se ad ogni piena del fiume restano vivi
l’allarme e le preoccupazioni della gente.
Vale la pena ricordare, in conclusione, i benefici che sarebbero potuti
derivare dalla realizzazione delle casse di espansione anche con riferimento al
destino dei numerosi attraversamenti cittadini, subito, a ragione o torto, chiamati
in causa come massimi responsabili dei problemi e messi nel mirino dei soliti
noti, che sono sempre in agguato.
Di tali ponti, vittime del furore da abbattimento di alcuni, l’unico da
demolire per davvero era il ponte ferroviario, peraltro sostituito da una
struttura che non può non destare qualche perplessità, se si guarda agli
aspetti idraulici. Gli altri ponti, anche sulla base delle valutazioni teoriche
condotte in allora per conto della Procura della Repubblica con riferimento ai
loro effetti sugli stati idrometrici degli eventi estremi, potevano forse
rimanere in posto e essere salvati, adottando interventi decisamente
praticabili e meno drastici. Si pensi in modo particolare al Ponte della
Cittadella, che fra l’altro aveva interesse storico e meritava di essere
salvato senza pregiudicare la sicurezza idraulica della città.
Al riguardo di questo ponte sembra quanto mai probabile che sul problema
pressioni improprie dei portatori di interesse e della politica, incapacità
della classe tecnica di far valere la propria autonomia di giudizio abbiano
contato più dell’idraulica!
Non sarebbe quindi inopportuno, per ragioni di trasparenza e di vera
conoscenza che fossero resi finalmente pubblici e messi nella
disponibilità di quanti fossero interessati i documenti tecnici che hanno
portato a una decisione così drastica e ancora molto discussa. Non ultimi i
risultati del modello fisico realizzato dall’AIPO.
Non servirà certamente a risuscitare il Ponte della Cittadella. Potrebbe però
evitare nel futuro che eventuali repliche di provvedimenti analoghi fossero
attuati non, come è avvenuto nel caso specifico, qualche giorno prima del 15
agosto ma proprio nella mattina di un caldo ferragosto. Magari
reclamizzando l’avvenimento, perché possa essere chiaro a tutti che il
piccone dell’ “ingiustizia idraulica” prima o dopo può sempre arrivare e
colpire.
Padova, 6 novembre 2014
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