lunedì 10 novembre 2014

"Approfondimenti tecnici sui temi della sicurezza idraulica del territorio a cura dell'AIPO e del Comune di Alessandria".

Contributo del  prof. Luigi D'Alpaos



Comune e attualità alessandrina

Ribadisco: per mettere in sicurezza la città bisognava spendere in altro modo.

.. Quale criterio adottare nella difesa dalle piene?..
Nella difesa dalle piene di un corso d’acqua si possono adottare due diversi criteri, entrambi finalizzati a ridurre, se non ad annullare, i fenomeni di esondazione in occasione degli eventi più gravosi.
Il primo criterio, che ancor oggi è quello generalmente perseguito, consiste nell’adeguare le sezioni di un corso d’acqua alle massime portate prevedibili, incrementandone la capacità di portata, in modo da contenere il colmo delle piene rispetto alle quali ci si vuole cautelare. L’obiettivo si può raggiungere sia ricalibrando le sezioni per far defluire, a parità di livello idrometrico, maggiori portate sia più semplicemente  innalzando le quote delle difese arginali, fino a renderle in grado di contenere le massime portate previste. Entrambi i provvedimenti non sono esenti da critiche. Riposizionando in quota le arginature si corre il rischio di accrescere il pericolo di cedimenti di tali strutture, che sono spesso il risultato di interventi successivi realizzati nell’arco di molti anni, adottando criteri e utilizzando materiali  non sempre adeguati rispetto alle esigenze di stabilità che queste  opere di difesa dovrebbero garantire in fase di piena.
La seconda soluzione, che prevede di ricalibrare le sezioni ampliandole, non necessariamente garantisce il mantenimento nel tempo della loro efficienza idraulica. Questa infatti dipende dalla stabilità dinamica delle sezioni rispetto ai fenomeni di erosione e di deposito che le possono interessare e che potrebbero farle evolvere in senso negativo, riportandole fatalmente verso la configurazione geometrica iniziale.
Tanto più l’evoluzione morfologica in senso negativo richiamata è da temere per corsi d’acqua che hanno sostanzialmente un regime torrentizio, come è nella maggior parte dei nostri fiumi, caratterizzati da fortissime differenze fra le portate di piena e le cosiddette “portate dominanti”, responsabili della modellazione  delle sezioni e del mantenimento nel tempo delle loro caratteristiche geometriche negli alvei naturali in presenza di importanti fenomeni di interazione fra la corrente e gli alvei mobili che la contengono.   
Il secondo criterio perseguibile per difendersi dalle alluvioni, da tempo suggerito ma nel nostro Paese ancora poco praticato dagli enti deputati alla difesa idraulica del territorio, è quello di trattenere temporaneamente i colmi di piena entro invasi appositamente predisposti, per rilasciare successivamente i volumi intercettati sulla coda della piena, quando le portate scaricate possono essere contenute senza pericoli entro gli alvei e fatte defluire con regolarità verso valle.
Se con il primo indirizzo di difesa si adeguano gli alvei alle portate, con il secondo si persegue l’obiettivo opposto: si adeguano le portate massime in arrivo  da monte alla capacità di portata degli alvei di valle.     
Dopo la  disastrosa alluvione del 4-5 novembre 1966, che colpì molte regioni italiane e in modo particolare la Toscana e il Veneto, fu insediata dal governo italiano una Commissione, che prese il nome dal suo autorevole presidente Giulio De Marchi, per far luce sull’evento e per individuare gli interventi necessari per evitare il ripetersi di una simile tragedia. La Commissione De Marchi nel trasmettere al Parlamento italiano i suoi atti  suggerì con determinazione la necessità di modificare gli indirizzi di difesa idraulica fino ad allora perseguiti orientando preferibilmente le iniziative verso  il criterio di moderare i colmi di piena in arrivo da monte mediante loro trattenuta temporanea. Il criterio fu  ritenuto preferibile per molteplici motivi. Esso permetteva di contenere i fenomeni alluvionali, di ridurre il rischio idraulico nei territori di pianura attraversati dai fiumi e di limitare i fenomeni di cedimento delle difese arginali, sempre possibili e adlle conseguenze quanto mai temibili.
Il criterio suggerito dalla Commissione non era una novità assoluta, essendo stato nel concreto già praticato dal Magistrato alle Acque negli anni venti del secolo scorso, realizzando il famoso bacino di laminazione delle piene di Montebello Vicentino (5.106 m3 di invaso), che negli anni successivi e fino ai nostri giorni fu decisivo per la difesa dalle alluvioni della pianura veneta attraversata dall’Agno-Guà.
Nonostante gli esiti positivi del provvedimento, purtroppo questo criterio di difesa non ebbe seguito e di fatto fu abbandonato. Miglior esito non ebbero i suggerimenti della Commissione De Marchi, troppo presto dimenticati da responsabili tecnici forse  troppo disinvolti, flessibili più di un giunco quando è preso dal vento rispetto alle esigenze della politica e sicuramente non all’altezza degli autorevoli componenti di quella Commissione. Eppure negli Atti della Commissione erano  contenute  precise indicazioni e puntuali  valutazioni sui benefici che nel campo della sicurezza idraulica sarebbero potuti derivare a molti dei nostri fiumi, soprattutto a quelli veneti.
Per il Veneto la colpevole incapacità di decidere dei responsabili tecnici, non particolarmente sensibili ai doveri della loro carica, fu evidente a tutti nel 2010, quando nel bacino del Bacchiglione molti dovettero sperimentare nuovamente sulla propria pelle cosa vuol dire alluvione. Quei danni e quelle vittime probabilmente non ci sarebbero stati, se si fosse data concreta attuazione alle opere indicate negli Atti della Commissione De Marchi.
Dopo questa ennesima tragedia, la decisa presa di posizione del Governatore della Regione Veneto ha dato finalmente avvio nel bacino del Bacchiglione e nei bacini di altri fiumi veneti alle opere per la laminazione delle piene da molti reclamate ma da altri contrastate nel nome di una visione localistica e poco lungimirante dei problemi. La speranza è che si continui nella direzione intrapresa, la sola che potrebbe permettere di raggiungere in tempi ragionevoli gli obiettivi che sono da molti anni, troppi, attesi.
Alla luce di queste brevi considerazioni, quanto si è fatto finora per il Tanaro, in particolare per la difesa dalle piene di Alessandria, è forse meritevole di  qualche riflessione critica.
Stranamente, nonostante non mancassero indicazioni favorevoli alla realizzazione di invasi destinati alla moderazione dei colmi di piena in arrivo da monte, si è preferito di continuare seguendo una politica antica, ispirata a criteri i cui limiti sono più che evidenti. Tanto più se si considera che  gli interventi al momento attuati non sembrano affatto essere in grado di fronteggiare una piena come fu quella del novembre 1994, straordinaria ma pur sempre ripetibile.
Sui provvedimenti adottati a difesa di Alessandria, con rialzi arginali, ampliamenti di sezione, abbattimento di ponti (fra i quali il famoso Ponte della Cittadella), i problemi sopra ricordati si calano in pieno: sul lungo periodo non è escluso che essi siano parzialmente vanificati  e che si ricada negli esiti negativi richiamati e già duramente sperimentati in un passato nemmeno troppo lontano.
Si tratta di provvedimenti ovviamente utili, ma non completamente risolutivi e bisognevoli forse di essere completati con la realizzazione a monte di Alessandria di invasi per la trattenuta temporanea dei colmi di piena in arrivo, in modo da ridurre  le portate massime a limiti di effettiva sicurezza idraulica per la città.
Mi sia permesso per un momento rituffarmi in fatti ormai lontani: le indagini condotte immediatamente dopo la drammatica piena del novembre 1994 per incarico della Procura della Repubblica. Ho avuto l’occasione di conoscere molte persone e di apprezzarne la  positività, lasciandomi ricordi  che a distanza di anni restano sempre vivi dentro di me. Ho avvertito, a dire il vero, anche la possibilità di verificare quanto siano forti le pressioni improprie per orientare le soluzioni in un campo che avrebbe solo e soltanto bisogno di azioni guidate dalla scienza, quella vera, non quella “amica”, che si accompagna il più delle volte a esiti infausti.
Dal punto di vista scientifico quella offertami dal Procuratore Dott. Brusco fu l’occasione  di dimostrare, mediante l’applicazione di una modellazione matematica idraulica avanzata, allora all’avanguardia ma tutt’ora efficacie ed efficiente, come si potesse interpretare con una fedele rappresentazione della realtà un fenomeno alluvionale complesso, quale fu quello che aveva colpito i Tanaro e il territorio Alessandrino. Su specifica richiesta del Procuratore ebbi fra l’altro modo di analizzare i benefici che sarebbero potuti derivare in termini di sicurezza idraulica dalla realizzazione dei diversi provvedimenti da più parte proposti. Fu così che ebbi modo di occuparmi anche delle casse di espansione indicate come possibili interventi dall’Autorità di Bacino del Po nello Studio SP1. Si trattava di interventi che interessavano aree golenali all’altezza di Asti, di fronte a Felizzano e subito dopo la confluenza del Belbo, associati a provvedimenti di ricalibratura locale dell’alveo e di riposizionamento in quota di alcuni tratti arginali. 
Come piena di riferimento nelle indagini promosse dalla Procura della Repubblica fu adottata la piena del novembre 1994, il cui colmo in arrivo ad Alessandria, con riscontri probanti in termini di quota idrometrica raggiunta lungo tutto il tratto cittadino, fu stimato di circa 4500 m3/s.
I risultati ottenuti furono estremamente incoraggianti, poiché quella piena, sicuramente straordinaria, vedeva il suo colmo ridotto nella parte in attraversamento alla città  a soli 3150 m3/s, più che tollerabili per l’alveo del Tanaro e rispettosi anche del limite di 4000 m3/s, allora indicato come non superabile verso Montecastello. Tanto più il risultato fu interessante se i considera che, con una ottimizzazione nell’uso dei volumi resi disponibili dalle casse di espansione, sarebbe stato  possibile fare ancora meglio, riducendo ulteriormente il colmo di quella piena. La moderazione delle portate massime  in attraversamento alla città riduceva fra l’altro il rischi idraulico per eventuali, sempre possibili, cedimenti arginali, essendo le difese sicuramente meno cimentate rispetto a soluzioni che contemplavano la necessità di garantire il passaggio di portate di piena più sostenute. Inoltre sarebbe stato possibile garantire per le sezioni dell’alveo maggiore stabilità idrodinamica, evitando quei fenomeni di deposito e di ostruzione che trovò la piena del novembre 1994. Aspetti questi ultimi rilevanti in tempi per i quali la parola manutenzione degli alvei sembra non esistere più e i relativi capitoli di spesa degli enti competenti sembrano essere desolatamente vuoti.     
Ma la soluzione delle casse di espansione, lineare ed efficacie nello stesso tempo e tutto sommato semplice da realizzare, venne ritenuta non praticabile da quanti allora gestivano le decisioni e da coloro (troppi) che li condizionavano per favorire i propri fini, non sempre commendevoli.
La realizzazione degli invasi di trattenuta dei colmi di piena fu così  rimandata a tempi migliori, adducendo in qualche caso motivazioni tecnicamente infondate.
Furono conseguentemente percorse strade diverse, ma, per quanto si sente dire, non del tutto tranquillizzanti, se ad ogni piena del fiume restano vivi l’allarme e le preoccupazioni della gente.
Vale la pena ricordare, in conclusione, i benefici che sarebbero potuti derivare dalla realizzazione delle casse di espansione anche con riferimento al destino dei numerosi attraversamenti cittadini, subito, a ragione o torto, chiamati in causa come massimi responsabili dei problemi e messi nel mirino dei soliti noti, che sono sempre in agguato.
Di tali ponti, vittime del furore da abbattimento di alcuni, l’unico da demolire per davvero era il ponte ferroviario, peraltro sostituito da una struttura che non può non destare qualche perplessità, se si guarda agli aspetti idraulici. Gli altri ponti, anche sulla base delle valutazioni teoriche condotte in allora per conto della Procura della Repubblica con riferimento ai loro effetti sugli stati idrometrici degli eventi estremi, potevano forse rimanere in posto e essere salvati, adottando interventi decisamente praticabili e meno drastici. Si pensi in modo particolare al Ponte della Cittadella, che fra l’altro aveva interesse storico e meritava di essere salvato senza pregiudicare la sicurezza idraulica della città.
Al riguardo di questo ponte sembra quanto mai probabile che sul problema pressioni improprie dei portatori di interesse e della politica, incapacità della classe tecnica di far valere la propria autonomia di giudizio abbiano contato più dell’idraulica!
Non sarebbe quindi inopportuno, per ragioni di trasparenza e di vera conoscenza  che fossero resi finalmente pubblici e messi nella disponibilità di quanti fossero interessati i documenti tecnici che hanno portato a una decisione così drastica e ancora molto discussa. Non ultimi i risultati del modello fisico realizzato dall’AIPO.
Non servirà certamente a risuscitare il Ponte della Cittadella. Potrebbe però evitare nel futuro che eventuali repliche di provvedimenti analoghi fossero attuati non, come è avvenuto nel caso specifico, qualche giorno prima del 15 agosto ma proprio nella mattina di un caldo ferragosto. Magari  reclamizzando l’avvenimento, perché possa essere chiaro a tutti che il piccone dell’ “ingiustizia idraulica” prima o dopo può sempre arrivare e colpire.

Padova, 6 novembre 2014


 



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