Il nostro prezioso socio Alessandro Maria segnala l'articolo apparso su "La Stampa" di ieri 21 marzo 2014.
Attenti all’acqua virtuale
Mario Tozzi
La buona notizia è
che, in linea teorica, ogni uomo ha a disposizione, sul pianeta Terra, oltre
diecimila litri di acqua al giorno: una quantità impressionante, se si pensa
che nella Firenze dell’estate del 1944 c’era disponibile un solo litro per
abitante. La notizia cattiva è che, però, ogni italiano (esempio paradigmatico
di cittadino del mondo occidentale ricco) ne «beve» seimila. Ma proprio ne
beve, tenendo presente che soltanto il 7% dell’impronta idrica viene usato per
la manifattura industriale, mentre solo il 4% per l’igiene domestico. Tutto il
resto è acqua «nascosta» nei cibi che consumiamo, inconsapevoli, in quantità
spaventose anche rispetto alla teorica ricchezza d’acqua del pianeta.
L’Italia è il
terzo importatore mondiale di acqua virtuale contenuta in cibi che provengono
dall’estero (62 miliardi di metri cubi all’anno), dunque contribuisce
seriamente all’assorbimento della risorsa idrica del mondo. Settanta grammi di
pomodori hanno bisogno di 13 litri d’acqua, ma un singolo hamburger arriva fino
a 2400 litri. Nonostante le piogge, che in Italia sono divenute più abbondanti,
nonostante per confezionare una t-shirt occorrano 4100 litri d’acqua e per
fabbricare un wafer di silicio da sei pollici ce ne vogliano 20.000, noi
assumiamo quantità incredibili d’acqua attraverso il cibo importato.
L’altra cattiva
notizia è che l’acqua degli italiani non è sempre di ottima qualità. Ora, va
subito detto che questa non può essere una scusa per continuare a essere fra i
primi consumatori di acqua in bottiglia al mondo (191 litri per famiglia
all’anno, più di noi solo il Messico). Non c’è alcuna ragione di sicurezza per
preferire l’acqua in bottiglia rispetto a quella del rubinetto, che viene controllata
quotidianamente con scrupolo e che deve sottostare a normative draconiane. Chi
vuole bere acqua in bottiglia lo può fare per qualsiasi ragione fuorché quella
della sicurezza, che è certamente garantita nei nostri acquedotti (e l’acqua
imbottigliata può anche essa provenire da falde vulcaniche). Ma l’arsenico, no,
quello non ce lo aspettavamo. Eppure, in realtà, le cose sono cambiate solo
sulla carta, quando finalmente l’Italia si è adeguata a una normativa europea
del 1998 (!) che è stata rimandata, come altre, per quasi vent’anni e che
prevede dieci microgrammi di arsenico, al massimo, per litro d’acqua potabile
(contro i cinquanta fino a qui tollerati). In diversi posti dell’Italia
centrale, e nella stessa Roma, invece, si va ben oltre quelle concentrazioni (o
meglio si andava già oltre): circa un milione di persone sono complessivamente
coinvolte nel nostro Paese.
L’arsenico non
dipende direttamente dall’inquinamento di attività umane velenose più o meno
criminali, o dallo stato delle condutture, quanto da condizioni chimiche
particolari nell’acquifero o dalla presenza di minerali sulfurei che contengono
il pericoloso elemento che viene portato in circolo naturalmente. Lo stesso
fenomeno è ben noto in Giappone, Nuova Zelanda, Cina o Grecia e dove sono
presenti rocce vulcaniche. E, in genere, si ritiene che il fenomeno sia
praticamente tollerabile per gli adulti almeno fino a tre anni di esposizione,
mentre comporti rischi più alti fino ai 18 anni di età (i pochi studi
epidemiologici non mettono in luce rischio di malattie connesse per livelli
inferiori ai 25 microgrammi). E’ peraltro possibile eliminare chimicamente
l’arsenico, potenzialmente in grado di provocare cancro e danni
cardiovascolari, attraverso alcuni «filtri» che comportano un costo elevato,
diciamo attorno a 250.000 euro per cinquemila abitanti (come si è fatto a
Vitorchiano, in provincia di Viterbo). Siamo sicuri che eventuali gestori
privati dell’acqua possano permetterselo? E, infine, se l’arsenico è da sempre
naturalmente contenuto nelle falde acquifere dei terreni vulcanici, come
facevano gli antichi abitanti dell’Etruria o del Lazio a non avvelenarsi?
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